Michael Moore: il distruttore
Michael Francis Moore, classe 1954. Per chi non lo conoscesse, odia Bush, le armi, il sistema sanitario americano e molte altre cose del suo Paese: la tensione costante verso la guerra, la filosofia da esportatori di democrazia, l’ignoranza del popolo e il potere delle Élite. Ficca il naso nelle questioni più scottanti, arrivando fino in fondo senza che nessuno riesca mai a fermarlo.
Ecco. Moore non molla, ed è qui che possiamo partire.

Quando si contesta una determinata dinamica nella propria nazione, si sta compiendo un atto particolare, per nulla scontato: infatti, chi è contrario a determinati aspetti della contemporaneità non alza la voce, anzi: spesso si sente così inascoltato che si zittisce in autonomia mentre si dilegua verso altri contesti più allettanti. Magari emigra, magari cerca di crearsi uno spazio che lo possa accontentare. Non si espone, ed è una scelta.
Il contestatore, invece, non è colui che se ne vuole andare, anzi: è la persona che rimane proprio per manifestare e ribellarsi, per farsi notare e far notare agli altri un problema. Michael Moore fa tutto questo, non in una piazza, bensì attraverso una cinepresa e (spesso) una buona dose di sfrontatezza.
Ciò che colpisce di questo regista è la capacità di unire emotività con ironia, passando dai volti sconvolti durante il crollo delle Torri Gemelle alle partite di golf di George W. Bush, dalla strage della Columbine High School agli spezzoni di South Park. Interviste, manifestazioni, viaggi per l’America e non solo. Moore racconta il suo viaggio personale dentro una tematica, portandoci con sé attraverso i volti e la storia per arrivare poi (forse) ad una conclusione, il più delle volte purtroppo irrisolvibile.

Se lo stile del regista è totalmente personale e concentrato sul suo volto (è lui, fisicamente, il vero protagonista del film), lo è anche l’opinione e la direzione della pellicola. Si tratta del suo punto di vista. Proprio qua, si intravedono i primi problemi.
Prendiamo l’esempio di “Bowling For Columbine”, il documentario che ha portato Moore a vincere un Oscar. Da subito veniamo proiettati in un ritmo sfrenato del suo viaggio tra gli Stati Uniti ed il Canada per approfondire il tema della liberalizzazione delle armi. Sebbene, come già detto, si tratta di un documentario “di scoperta”, dove noi ci inquadriamo con il regista che indaga a mano a mano il “caso”, Moore ha già una sua opinione: assolutamente contrario alle armi. Per provare questa posizione, è quindi portato ad attirare più acqua possibile al proprio mulino. Ecco che quindi intervista le persone più polarizzate del dibattito pubblico, quelle più controverse, usando anche l’emotività per invece enfatizzare determinati aspetti. Con Moore, il documentario diventa il “genere del suo punto di vista”.
Arrivati a questo punto, la domanda non è se sia giusto o sbagliato, ma se questa tipologia di film sia effettivamente utile. Noi, in quanto pubblico, guardiamo i documentari per informarci su una determinata tematica, volendo quindi costruire una personale opinione basata sui fatti. Questo genere ci garantisce in qualche modo la “verità” di ciò che vediamo e soprattutto un’apparente imparzialità. Se, però, scegliamo un documentario di Moore, siamo già schierati, perché sappiamo cosa dirà, con quale tono, e soprattutto verso quale “polo”.

Si viene a creare un cortocircuito. Il documentario smette di essere uno strumento di informazione e di dibattito, diventando invece una semplice conferma di una fazione: se sei d’accordo con Moore, guarderai il suo film. Altrimenti, ti rivolgerai semplicemente da un’altra parte.
Ecco. Lo schieramento e l’attivismo di Moore è poco efficiente per questo: essendo così polarizzato, attira un pubblico già favorevole alla sua visione del mondo. Perde quindi quella carica sociale potenzialmente impattante e didattica, inimicandosi, così, proprio quella parte di pubblico che dovrebbe cercare di convincere.
@riproduzioneriservata di Andrea Leandri