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Il patto del silenzio

Il patto del silenzio è un film piccolo, stretto. I due aggettivi in questione non sono usati in modo negativo, tutt’altro. La regista Laura Wandel dimostra di avere una consapevolezza totale del mezzo cinematografico. La camera a mano, con cui il film è realizzato, segue in modo soffocante i personaggi, tenendoci sempre all’altezza del loro sguardo.



I protagonisti sono due bambini, fratello e sorella. Abel e Nora. La vicenda si sviluppa dall’ingresso a scuola proprio di Nora che scoprirà degli aspetti della vita del fratello che prima le erano sconosciuti e probabilmente impensabili.


Abel infatti subisce bullismo da parte di altri bambini ma non vuole che la sorella s’intrometta e chieda aiuto agli insegnanti o a casa. Da questa volontà di Abel prende forma il titolo del film, nella versione italiana. Una volontà che la piccola Nora non riesce a capire e cerca, per quello che può, di dare una mano al fratello.


Da queste vicende s’innescano tutte le dinamiche d’interesse nella narrazione della Wandel. Il microcosmo che la regista, alla sua opera prima, mette in scena è la dimostrazione della crudeltà che il “regno” dell’infanzia possiede.



I bambini nel film vivono a contatto con la violenza, fisica e psicologica, in un luogo che tutti conosciamo: la scuola. Tutto si svolge all’interno della dimensione scolastica. Aule, corridoi, scale, mense, bagni e cortili. In questi ambienti i personaggi si muovono, giocano, sbagliano, soffrono, piangono e rimangono in silenzio.


Il mondo degli adulti vive quasi all’oscuro di tutto. Gli insegnanti spesso non colgono il malessere dei piccoli. Sì, finiscono per separarli negli scontri fisici ma ignorano le dolorose dinamiche di rapporti che si generano.


Così l’opera riesce in modo sopraffino a sviscerare le relazioni di potere tra i bambini. La stessa Nora, in un determinato momento della storia, finirà per provare vergogna verso quel fratello incapace di farsi valere nei confronti degli altri.



I legami familiari sembrano quasi essere un ostacolo. Abel e Nora sono incapaci di comunicare reciprocamente i propri turbamenti, questo è attribuibile all’età ma non solo. S’intuisce infatti che a casa la loro situazione sia complicata. Il padre li porta a scuola, li passa a prendere e non lavora mentre della madre non si sa nulla.


Lo spettatore più accorto intuirà come ci sia una grossa possibilità che la figura materna sia assente. Un lutto? Una malattia? Una separazione? Domande del genere nascono e maturano senza trovare soluzione. Perché? Perché, come già detto, dalla scuola il film non esce mai.

La durata, in questo senso, è funzionale.


Settantadue minuti. Poco per la media a cui si è abituati ma il senso di angoscia che impregna la pellicola, crescendo pian piano, ne amplifica la percezione. Il film, paradossalmente, sembra durare molto di più e al tempo stesso molto di meno, proprio per la sua capacità di creare una tensione continua pur non trattandosi di un thriller, per lo meno in senso stretto.



Ci saranno continui capovolgimenti, i bambini passeranno in fretta dall’essere vittime all’essere carnefici, e viceversa. Il film non edulcora nulla, è duro, spietato per certi versi ma si concede attimi di tenerezza che è impossibile ignorare.


La fotografia riesce a catturare queste atmosfere tramite una palette di colori scura, cupa che ben rappresenta quanto accade sul piano narrativo.


È raro vedere opere così consapevoli, che fanno sfoggio di una capacità tecnica, quasi muscolare ma che rimangono, per così dire, esili. Esile perché non fa un’ostentazione tecnica votata a stupire il pubblico, per ammaliararlo e catturare solamente il suo occhio ma lo fa declinando ogni scelta alla storia, sempre. Tanto da risultare semplice, quando semplice non è.



@murph.magazine di Gabriele Viale

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