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Perfect Blue: il culto del perfetto

Cosa saresti disposto a dare pur di realizzare il tuo più grande sogno?Cosa accetteresti di perdere, pur di raggiungere il successo? Sacrificheresti la tua identità, la tua

innocenza, la tua sanità mentale? Saresti in grado di guardarti allo specchio e vedere uno sconosciuto, che indossa la tua pelle e i tuoi vestiti?



Una versione migliore di te, che ti ricorda costantemente chi eri e chi invece non sarai mai? Se sapessi che il prezzo da pagare per poter dire “ce l’ho fatta” è la follia, lo pagheresti? Sì, direbbe Mima Kirigoe, giovane e amatissima J-pop idol, nel momento in cui, non soddisfatta dallo scarso successo commerciale, decide di abbandonare il gruppo in cui canta per iniziare una carriera da attrice. Non si tratta soltanto di un cambio di lavoro, ma di un radicale cambiamento della sua persona pubblica, per lasciarsi alle spalle lo status di idol che la voleva innocente, pura e ingenua.


La cosa viene accolta male dai suoi fan, principalmente uomini più grandi di lei, al punto che inizia a ricevere messaggi anonimi di minaccia da un fan otaku, convinto che lei sia in realtà un’impostora che vuole rovinare l’immagine della “sua” Mima. Il punto di rottura definitivo arriva quando Mima, che interpreta una ragazza schizofrenica in una serie thriller, accetta di girare una scena di stupro di gruppo, ben consapevole che si tratta dell’unico modo per poter rendere centrale il suo ruolo inizialmente secondario.


Questo la spezzerà mentalmente e la porterà ad essere tormentata da allucinazioni e paranoie, vedendosi perseguitata sia dal suo stalker che dal fantasma della sua vecchia identità di idol (la “vera Mima”), che le ricordano quanto ora sia “sporca” e impura. Realtà, finzione e apparenza iniziano a confondersi tra di loro, ancora di più dopo che il lavoro sul set viene sconvolto da una serie di omicidi di cui pensa di essere responsabile.



Chi è lei davvero, al di là di quello che il pubblico vede? Esiste una Mima Kirigoe, o è solo carne da macello, che cerca la gratificazione negli applausi dei suoi fan e nelle luci della ribalta? Mima non lo sa, non riesce a capire cosa è vero e non ci riusciamo nemmeno noi, spettatori della sua follia, che veniamo trascinati giù con lei in una spirale di distruzione.


Perfect Blue, capolavoro d’esordio di Satoshi Kon, ora di nuovo nelle sale, mette in scena un gioco di ossessioni da cui nessun personaggio è esente e il cui cuore è il desiderio di Mima di inseguire il successo.


Da un lato, abbiamo il suo stalker Me-Mania, convinto di essere in contatto con la “vera Mima” , da cui è ossessionato al punto da essere disposto a uccidere per lei. Dall’altro, la sua manager Rumi, ex-idol anch’ella, che proietta sé stessa su Mima e impazzisce quando la giovane decide di rovinare l’immagine che lei le aveva costruito con tanta cura.



E tutto intorno, una cornice composta dai fan, dal manager Takodoro, dallo sceneggiatore e dal fotografo Murano, che parlano di Mima e interagiscono con lei senza mai vederla come una persona vera, ma solo come una figura astratta, un’immagine pubblica da manipolare e modellare.


Con Perfect Blue, Kon rappresenta la degenerazione della cultura giapponese degli idol, soprattutto delle ragazze, basata sulla venerazione di un’identità pubblica disegnata ad arte in modo da coltivare un vero e proprio fanatismo nel pubblico, che si immedesima in maniera anche patologica e arriva perfino a pensare di poter controllare ciò che gli idol fanno.


Questo fenomeno, all’alba dell’uscita del film nel 1997, aveva già superato il suo tempo d’oro e sembrava essere sulla via del declino quando l’arrivo di internet ha offerto alle persone un nuovo canale per sfogare le loro ossessioni e sottoporsi, al tempo stesso, alle pressioni dei media.



Proprio questa chiave di lettura del suo tempo renderà Kon e il suo Perfect Blue espressione di una cultura basata sull’ossessione per l’immagine, per il successo e per la perfezione, andando oltre i confini geografici del Giappone e quelli della cultura degli idol, per evidenziare un innegabile sintomo dell’epoca contemporanea.


Non è un caso, quindi, che questo thriller psicologico abbia avuto grande successo, trovando subito un tropo in cui incasellarsi a livello internazionale, quello dell’obsessed artist, l’artista ossessionato, che anela alla perfetto e si annulla dentro la propria arte, in una tragica parabola discendente. Alcuni esempi del genere sono, fra i più famosi, Whiplash, Il cigno nero (ispirato proprio a Perfect Blue), Birdman, Tonya o Il filo nascosto, per poi andare a ritroso nel tempo con l’Amadeus di Forman, l’ 8 ½ di Fellini e Sunset Boulevard.



Che lo si voglia considerare un genere o un nucleo tematico, è chiaro che ci piace, e tanto. Osserviamo in maniera quasi morbosa i personaggi cadere nella disperazione o nella follia. Anche quando non hanno un lieto fine, anche quando sono delle persone terribili, noi ci immedesimiamo.


Li ammiriamo, perfino, facciamo nostre le loro ambizioni e sofferenze. Perché in realtà sono sentimenti che appartengono a tutti noi che viviamo in una società in cui tutti giudicano tutti, in cui l’apparenza conta più della sostanza, in cui se non dedichi tutta la tua vita ad un qualcosa, allora sei considerato un fallito.



Studia, lavora, guadagna, e se non sei perfetto, allora hai già sbagliato. Quindi potremmo non essere cantanti j-pop o attori e potremmo non avere uno stalker privo di contatto dalla realtà (e menomale), ma se vi è mai capitato di sentirvi giudicati nelle scelte che avete preso, se vi sembra di aver sbagliato tutto o se vi sentite oppressi dal peso di uno standard che sembra irraggiungibile, allora questo film sta parlando anche con voi.




murph.magazine di Martina Marrone

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